Condannato a 65 anni di carcere per omicidio, NON HA UCCISO NESSUNO

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Lo strano verdetto di una causa negli Stati Uniti … Negli Stati Uniti, è possibile essere condannati per omicidio senza nemmeno uccidere qualcuno.

Il caso emblematico delle sorprendenti e ingiuste conseguenze di un furto con scasso in Alabama del 2015. In USA pene sempre più severe e sempre più ricorso al carcere per il “Correctional Business” che favorisce e ingrassa la lobby privata del sistema penitenziario

 

Il fatto. A quel tempo, il 16enne A’Donte Washington e il quindicenne Lake Smith Smith fecero irruzione in una casa a Millbrook, in Alabama. Quando uscirono, si trovarono faccia a faccia con una pattuglia della polizia.

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Fuggirono, ne conseguì una caccia all’uomo. Gli agenti sfoderarono le pistole e colpirono. A’Donte venne mortalmente ferito al collo. Il suo complice arrestato. A’Donte era stato infatti ucciso da uno degli agenti di polizia. Nessun dubbio. La sua responsabilità era stata rapidamente confermata dalle immagini registrate tramite la sua fotocamera pedonale. La giuria, tuttavia, decide di assolverlo perché, secondo lui, l’uso dell’arma era giustificato in questo caso. Più sorprendentemente, Lake Smith Smith, tuttavia, è stato condannato la scorsa settimana per … l’omicidio del suo amico, il cui ufficiale di polizia è ancora l’autore, tecnicamente.

Un verdetto piuttosto incoerente visto dall’Europa e dall’Italia dove il principio secondo cui la responsabilità penale è personale è un caposaldo dell’ordinamento. In USA evidentemente non sempre è così. La vita del giovane Lake Smith Smith è incredibilmente compromessa: è stato condannato a 65 anni di carcere: 30 anni per omicidio, 15 anni per furto con scasso e due volte 10 anni per rapina.

Il suo semplice coinvolgimento in furto con scasso sarebbe stato ritenuto sufficiente ad incolparlo per la morte del suo amico durante l’operazione di polizia. Il detenuto non ha nemmeno sparato in cambio, ma questo “dettaglio” non ha importanza nel diritto penale statunitense.

Una legge supporta davvero questo strano e a dir poco ingiusto verdetto: “la responsabilità del complice” (“responsabilità complice”). La definizione di questo crimine rispetta questa logica: se Lake Smith non avesse partecipato al furto, A’Donte non sarebbe morto, quindi è un assassino.

Nel vicino stato della Georgia, nel 2017, un simile verdetto aveva già attirato l’attenzione. Un uomo era stato ucciso dal proprietario della casa in cui stava cercando di entrare. Il suo complice, arrestato vivo dalla polizia, era stato condannato per l’omicidio che non aveva commesso. Per gli stessi motivi. Lo sparatore era stato assolto per autodifesa.

Ancora più incomprensibile è il caso di Ryan Holle. Il ventenne è stato condannato all’ergastolo per aver prestato la sua auto agli amici per i loro misfatti. Ma il furto era andato storto, una persona era stata uccisa e Ryan Holle accusato di omicidio: “Nessuna macchina, nessuna conseguenza, nessuna macchina, nessun omicidio”, ha detto il pubblico ministero, orgoglioso della sua implacabile logica. La sua condanna fu infine ridotta a 25 anni di carcere dal governatore della Florida.

Allucinante, semplicemente allucinante ma conoscendo il sistema e la sua deriva, nulla di cui stupirsi.

Gli americani lo chiamano “Correctional Business” perché anche l’amministrazione della pena è ormai diventata un affare. Il boom, del business carcerario in USA, è un fenomeno relativamente recente. Nel corso degli ultimi vent’anni, sono state costruite più di mille nuove prigioni e negli ultimi trent’anni, il numero dei detenuti e più che raddoppiato. Lo sviluppo delle privatizzazioni ha favorito la nascita di una grande e articolata “industria delle carceri”.

La potente lobby, esercita forti pressioni su politici e magistrati, per impedire che nuove procedure e norme sulla libertà provvisoria, o nuovi finanziamenti alle prigioni pubbliche, interferiscano con i suoi interessi, incoraggiando, di fatto, l’incremento delle carcerazioni.

Appaltatori, fornitori delle forze dell’ordine e sindacato delle guardie carcerarie, hanno fatto approvare una legge che inasprisce i tempi di detenzione: le celle non rimangono mai vuote. Il giro d’affari che prospera intorno al business carcerario vale miliardi di dollari l’anno.

Più di cento imprese specializzate operano esclusivamente nel campo dell’edilizia penitenziaria, ma l’indotto comprende, oltre ai costruttori di “prigioni Chiavi in mano”, anche fornitori di servizi per la gestione penitenziaria, produttori di bracciali elettronici, di armi speciali, di sistemi di controllo. Nell’industria del carcere il settore delle nuove tecnologie è quello che cresce più velocemente, per le alte tecnologie impiegate all’interno degli istituti di pena: la schedatura elettronica interessa ormai un terzo della popolazione maschile.

D’altronde l’”industria delle sbarre” svolge paradossalmente anche un ruolo calmierante nei confronti dei tassi di disoccupazione, sottraendo al mercato del lavoro migliaia di persone, ma crea occupazione nel campo dei beni e dei servizi carcerari.

È stato calcolato che negli ultimi dieci anni le carceri americane hanno contribuito a ridurre, di due punti, il tasso di disoccupazione “assorbendo le eccedenze”. Cifre da capogiro, insomma, che non giustificano in alcun un modo un sistema che non appare assolutamente in linea con la funzione rieducatrice della pena e con la necessità dello Stato di Diritto di favorire la riabilitazione del condannato e il suo reingresso nella società.

Il pericolo che anche in Italia possa essere replicato un sistema analogo è del tutto reale se si pensa che il leghista Pagliarini ha già proposto di affidare ai privati la gestione delle carceri. Un progetto che ovviamente, da Stato civile dovrebbe essere prontamente messo nel cassetto per evitare che si possa prendere la stessa piega di quello americano.

Giovanni D’Agata
Presidente dello “Sportello dei Diritti”

 

Foto puramente indicativa

 

 

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